giovedì 14 luglio 2011

14 e 15 luglio: il Festino di S. Rosalia e il Gelato di Campagna

Il mese di Luglio per i palermitani è il mese del "Festino", dedicato alla patrona, a Rosalia, figlia di Sinibaldi, signore della Quisquinia e delle Rose, che la leggenda e la fantasia popolare vogliono abbia abbandonato gli splendori della corte normanna di Guglielmo I per vivere in ultimo eremitaggio sul Monte Pellegrino.
Santa Rosalia, le cui ossa rinvenute in una grotta del monte, fecero cessare la peste che imperversava in Palermo nell'anno 1624.
Per tale patrona non potevano quindi mancare feste proporzionate al suo rango. E così, a partire dal 1625 e salvo rarissime eccezioni, il famoso "festino" di S. Rosalia, della durata di tre, quattro, o cinque giorni, diede luogo a manifestazioni il cui ricordo oggi rimane attraverso le relazioni che il Senato palermitano annualmente dava alle stampe.
E gli ingredienti da manipolare per colmare queste interminabili cinque giornate non mancavano: la cavalcata, il carro trionfale, grandi altari apparecchiati ai Quattro Cantoni, il gioco di fuoco a mare a Porta Felice, l'illuminazione delle piramidi nelle strade Toledo e Maqueda, la corsa dei cavalli nel Cassaro ed infine la processione dell'urna argentea contenente le ossa della Santa.
Ogni civica amministrazione - allora detta Senato - cercava di superare la precedente, sperimentando qualche nuovo "marchingegno" per sbalordire il popolo palermitano.
Nel 1751 i giorni del festeggiamento divennero addirittura cinque, per ringraziare la Santa che aveva protetto la città dai dannni del terremoto di quell'anno. E in una città dove calamità naturali impedite o mitigate per intercessioni di Santi non mancavano, si rischiava di fare festino tutto l'anno.
Nè valeva la mente illuminata di qualche Vicerè come Caracciolo, che nel 1793 aveva ben pensato di riportare la durata di quelle feste ai tre giorni originari, destinando le economie che ne sarebbero risultate ad altri usi. Ma la reazione fu feroce e non solo quella popolare. Ed il popolo fece trovare sul piano del palazzo reale alcuni cartelli con scritto su "o festa o testa", per cui il Caracciolo, che era riuscito ad abolire il Tribunale della Santa Inquisizione, si dovette invece rassegnare a metter da parte la idea relativa al Festino.
Da più di un secolo il Festino ha perduto la sua antica magnificenza. Le giornate ritornarono ad essere tre, e ciò che rimase delle antiche manifestazioni andò via via perdendo l'originario splendore. Scomparvero le "corse dei Berberi", ovvero le corse con i cavalli su cui montavano alcuni ragazzi senza sella e senza staffa che si svolgevano lungo il Cassaro nel secondo, terzo e quarto giorno. Al vincitore veniva data in premio un'aquila di legno dorato, alla quale erano attaccate delle monete d'argento. 
Ma l'elemento più coreografico del Festino era il carro trionfale. Contrariamente a quanto molti ritengono, il primo carro venne costruito soltanto nel 1686, sessantadue anni dopo il rinvenimento delle ossa di S. Rosalia sul Monte Pellegrino. Aveva la forma di una grande barca sormontata da una composizione architettonica, in cima alla quale, tra nuvole ed angeli, troneggiava la statua della Santa. Ogni anno si procedeva al montaggio della macchina che nella parte superiore veniva variata, ogni anno, secondo il disegno dei più illustri architetti del Senato palermitano. Il carro era trainato da muli - generalmente 40 o 50 - montati da postiglioni vestiti di rosso. Dopo il 1822, i muli furono sostituiti da buoi. La monumentale macchina, la prima giornata del Festino entrava da Porta Felice facendo l'acchianata (la salita) sino al piano del Palazzo Reale. La sera del giorno successivo, sfarzosamente illuminata, faceva la scinnuta (discesa), percorrendo il Cassaro in senso inverso e si andava a fermare nuovamente lungo la passeggiata alla Marina.
La tradizione del carro fu sospesa durante i lavori di pavimentazione del Cassaro, e solo dopo trentotto anni, nel 1896, fu ripresa per iniziativa di Giuseppe Pitrè. Lo si ricostruì su disegno di quello del 1857, alto trenta metri, lungo ventidue, largo quattordici. Non potè percorrere il Cassaro per la scarsa resistenza della struttura stradale, e fu fatto avanzare, tirato da un trattore, lungo le vie Libertà e Ruggero Settimo fino a Piazza Verdi. Anche qeusto carro ebbe vita breve e bisognò attendere il 1924, terzo centenario del rinvenimento delle ossa della Santa, per avere un altro carro, questa volta in posizione fissa a Piazza Castelnuovo. La macchina era alta venticinque metri, lunga venti e larga dieci. Il carro venne illuminato con centinaia di lampade policrome e su di esso fu celebrata la messa solenne alla presenza di una marea di popolo.
Poi fino al 1958 non vi fu più il carro, quando ne venne costruito uno fisso alla Marina. Bisogna arrivare al 1974, al 350° anniversario del Festino, quando venne costruito un carro su ispirazione delle forme settecentesche. La gigantesca macchina fa per ben due volte la discesa dell'antico Cassaro, per sostare infine nel terrapieno del Foro Italico. Negli anni successivi è stato utilizzato sempre lo stesso carro, vanificando quindi la tradizione di un carro diverso ogni anno, come si faceva un tempo.
Oggi il Festino non è più come una volta, anche se si cerca di imitare l'organizzazione della festa del settecento: viene fatto un carro, non maestoso come quello di un tempo, che fa la discesa fino alla Marina, dove viene accolta da fuori d'artificio sul mare. Qui il carro sosta fino al 15 luglio, giorno in cui la Santuzza esce dalla Cattedrale nella sua urna di argento massiccio ed in processione va per tutto il quartiere, seguita dal popolo palermitano.
Ciò che non è cambiato sono invece le tradizioni culinarie: e d'obbligo, la sera del 14 ed il successivo 15 luglio, mangiare presso i tavolini preparati alla Marina i babbalùci (lumache) condite con olio, aglio e prezzemolo, le fette di anguria ghiacciata, e il Gelato di Campagna, una sorta di torrone che si scioglie in bocca come un gelato e che riporta i colori del tricolore italiano: rosso, bianco e verde. (v. post sul blog: Il gelato di Campagna e l'Unità d'Italia)
Potete acquistare il Gelato di Campagna presso Sorsi & Sapori - mail: sorsiesapori@libero.it - sito web: http://sorsiesapori.xoom.it/
Tratto da Alla scoperta della tua città - di Rosario La Duca - Edizioni Ristampe siciliane
Nella foto: il carro di Santa Rosalia del 1836

Il Limone siciliano

Parlare in poche righe delle proprietà ed usi di uno dei frutti più importanti della tradizione siciliana sarebbe impossibile. Ci limiteremo qui a ricordare che il suo succo contiene acido citrico, vitamina C, acido malico, glucidi, sali, minerali, oligoelementi, ecc. e che, tanto per citare, esso vanta proprietà toniche, aromatizzanti, digestive, antisettiche, vitaminizzanti.
In caso di influenza, malattie infettive, anemie, nausea, reumatismi, inappetenza, bronchiti, arteriosclerosi, digestioni difficili, si consumi succo di limone in quantità opportune secondo le esigenze e la tollerabilità individuale, magari al mattino.
Contro il colesterolo si consumi il succo di 1/2 limone diluito nell'acqua il primo giorno e, aumentando le dosi giornaliere di 1/2 limone, si prosegua per due settimane. Il succo del limone si utilizza anche esternamente per frizionare o disinfettare punture d'insetti, piccole ulcere, piaghe e ferite.

Il limone è un alberello sempreverde con corteccia liscia, ha foglie picciolate, appuntite, di forma larga ed ellittica a margine seghettato. I fiori, posti all'ascella fogliare, sono di color bianco all'interno e sovente rosato all'esterno. La fioritura varia a seconda delle zone di coltivazione, dalla primavera all'estate.
Il frutto è un esperidio di forma ovale, con scorza più o meno sottile, verde da giovane e di color giallo citrino a maturità, talvolta con una superficie irregolare, bitorzoluta. La pianta può raggiungere i 10 mt di altezza.
Originario dell'Asia, il limone si è diffuso nell'area meridionale e naturalmente in Sicilia, oltre che in zone dell'Italia meridionale con clima analogo.

Il limone trova vastissimo uso nella cucina siciliana, per aromatizzare e rendere più diferibili i cibi e per preparare bevande dissetanti.
Sorsi & Sapori lo propone nelle vesti di:
Marmellata artigianale al Limone - 70% di frutta e zucchero - in confezioni da gr 220  e da gr 360
Liquore artigianale al Limone in confezioni da 10 cl e da 50 cl
Pasta per la preparazione di gelati e granite siciliane al limone - in confezione da 1 Kg e da 1/2 Kg
Contattare Anna Squatrito - sito web http://sorsiesapori.xoom.it/ - mail: sorsiesapori@libero.it - Cell. 3319087074

lunedì 11 luglio 2011

Il gelsomino siciliano

Una leggenda araba diceva che il profumo del Paradiso era il gelsomino: la sua fragranza, nelle calde notti siciliane, è persistente ma nel contempo delicata e gradevole.

Da sempre simbolo dell'amore divino, fu introdotto in Sicilia appunto durante la dominazione araba, ed adoperato da questi per diversi usi alimentari, tramandati fino ad oggi.

Il gelsomino è un arbusto rampicante, appartenente alla famiglia delle Oleacee, e vanta più o meno 300 varietà. Quello di cui ci occupiamo è il gelsomino siciliano bianco.

Sempreverde e dal fusto legnoso e sottile, può raggiungere anche i 4 metri d'altezza. Il periodo di fioritura è quello estivo. I fiori, piccoli e bianchi, sono composti da 5 petali e sempre molto numerosi e dal profumo intenso, in modo particolare di notte. Per moltiplicarne la coltivazione, con il metodo della talea, è bene incidere i rami più vecchi solo dopo la fioritura.

Spesso usata come pianta ornamentale, il gelsomino è anche conosciuto per le sue qualità terapeutiche. Per esempio, può essere impiegato come sedativo mettendo sali profumati al gelsomino nell'acqua del bagno. Agisce anche sull'attività cerebrale e psichica della persona, contribuendo a rendere il carattere più costruttivo e fermo. Agevola il flusso sanguigno della zona pelvica contrastando i fastidi della sindrome premestruale; durante il ciclo allevia i dolori sciogliendo le tensioni. Utilizzato in cosmesi, tonifica e previene l'invecchiamento della pelle.

Come lo utilizzavano gli arabi in Sicilia? Essi usavano bere nelle calde giornate estive una bevanda gelata con la neve (trovata alle pèndici di alte vette palermitane) e preparata con zucchero di canna, e infuso di gelsomino: lo “Sciarbat”, sorbire, da cui deriva l’attuale Sorbetto. Uno dei sorbetti più famosi, di cui i pasticcieri palermitani hanno gelosamente conservato la ricetta, e che ancora oggi viene consumato dai siciliani e dai turisti curiosi di questo strano sapore nelle estati siciliane.

Altro impiego alimentare del gelsomino è l’aggiunta dei piccoli fiori nel “gelo di mellone”, tipica gelatina di anguria preparata nel palermitano.

Sorsi & Sapori vi dà la possibilità di “gustare” il gelsomino siciliano con:
Pasta per gelati e granite al gusto di gelsomino, per preparare in casa vostra la famosa e antichissima granita siciliana al gelsomino, utilizzando soltanto 40 gr di pasta in un lt di acqua e gr 200 di zucchero o per insaporire con l’aroma di gelsomino il vostro gelo di mellone utilizzando soltanto ½ cucchiaino da caffè

Il Cioccolato modicano al gelsomino: al cioccolato modicano ed alla sua storia dedicheremo un post. Vi consigliamo intanto di gustarlo, per il suo sapore unico, nato dall’incontro del forte aroma del cacao con il sapore delicato del gelsomino. Tavoletta da gr 100

Acquistate la pasta per gelato al gelsomino e il cioccolato modicano al gelsomino presso Sorsi & Sapori: http://sorsiesapori.xoom.it/

Anna Squatrito

martedì 5 luglio 2011

Il fico d'India

Sorsi & Sapori propone il Fico d'India nelle seguenti varianti:
Marmellata artigianale di Fico d'India - 70% di frutta, zucchero, succo di limone, prodotta artigianalmente secondo le antiche ricette siciliane.
Il Liquore di Fico d'India, ottimo consumato freddo o sul gelato.
La pasta per gelato al Fico d'India, per realizzare a casa vostra la famosa granita siciliana al fico d'India o ottimi gelati.
Vi illustriamo adesso la storia ma soprattutto la squisitezza e le proprietà terapeutiche di questo famosissimo frutto siciliano

Il fico d'India o ficodindia (Opuntia ficus-indica) è una pianta della famiglia delle Cactaceae, originaria del Messico ma naturalizzata in tutto il bacino del Mediterraneo e nelle zone temperate di America, Africa, Asia e Oceania. Trova inoltre il suo habitat ideale in Sicilia, Sardegna, Calabria e Salento. Molto apprezzato nel palermitano, è divenuto il simbolo dei paesaggi siciliani.
Nel periodo di fine estate ed inizio autunno, non è difficile imbattersi, negli antichi rioni di Palermo, i venditori di fichi d’India che, estraendo i frutti da un contenitore di acqua gelida, utile per rendere neutre le spine di cui sono pieni, li taglia con maestria per servire gli avventori.
Il Fico d’India viene classificato in base al colore della polpa ed al periodo di maturazione. Vi sono quelli dalla polpa rosso porpora nella varietà sanguigna, quelli dalla polpa bianca (in verità verde pallido) nella varietà “muscaredda”, quelli dalla polpa giallo-arancia nella varietà “sulfarina”.
I frutti che maturano ad agosto vengono chiamati “Agostani”, e sono un po’ più piccoli rispetto a quelli maturati a Settembre, chiamati “bastardoni” , dal sapore più appetitoso. I fruttivendoli siciliani consentono al consumatore di acquistare il frutto già sgusciato: importante è tenerli in frigo poiché vanno gustati freddi.
In Italia il 90% della superficie coltivata a fico d'India è localizzata in Sicilia, il rimanente 10% in Puglia, in Calabria ed in Sardegna. In Sicilia, oltre il 70% delle colture si concentrano in 3 aree: la zona collinare di San Cono, il versante sud-orientale delle pendici dell' Etna e la Valle del Belice
Storia
Il fico d’India è nativa del Messico. Da qui, nell'antichità, si diffuse tra le popolazioni del Centro America che la coltivavano e commerciavano già ai tempi degli Aztechi, presso i quali era considerata pianta sacra con forti valori simbolici. Una prova sicura dell'importanza di questa pianta negli scambi commerciali è fornita dal Codice Mendoza. Questo codice include una rappresentazione di tralci di Fico d’India dalla quale veniva estratto il carminio, pregiato colorante naturale. La pianta arrivò in Europa intorno al 1493, anno del ritorno a Lisbona di Cristoforo Colombo.
La prima descrizione dettagliata risale comunque al 1535, ma fu Miller, nel 1768, a definire la specie Opuntia ficus-indica, denominazione tuttora ufficialmente accettata.
In Europa la pianta oltre che per i suoi frutti, fu utilizzata per l'allevamento della cocciniglia del carminio, ottimo colorante naturale, ma si dovette aspettare sino al XIX secolo perché il tentativo avesse successo nelle isole Canarie. Agli inizi restò pertanto una curiosità da ospitare negli orti botanici. La sua diffusione si dovette sia agli uccelli, che mangiandone i frutti ne assicuravano la dispersione dei semi, sia all'uomo, che le trasportava sulle navi quale rimedio contro lo scorbuto. In nessuna altra parte del Mediterraneo il ficodindia si è diffuso come in Sicilia, grazie anche alle condizioni climatiche ottimali per la pianta, dove oltre a rappresentare un elemento costante nel paesaggio naturale, è divenuto anche un elemento ricorrente nelle rappresentazioni letterarie e iconografiche dell’isola, fino a diventarne in un certo qual modo il simbolo.
Fu introdotto nell’Isola, durante la dominazione spagnola intorno all’anno 1560. Veniva e viene tutt’ora utilizzata dai contadini per delimitare i propri poderi, grazie alla struttura spinosa della pianta.
In tempo di carestia qualcuno ne scoprì la bontà del frutto, che fu addirittura considerato “il pane dei poveri” , a dispetto delle spine e dei semi.

Descrizione
Il fusto è composto da cladodi, (ramo trasformato, spesso di consistenza coriacea, che assume l’aspetto e la funzione di una foglia) comunemente denominati pale: si tratta di fusti modificati, di forma appiattita e ovaliforme, lunghi da 30 a 40 cm, larghi da 15 a 25 cm e spessi 1,5-3,0 cm, che, unendosi gli uni agli altri formano delle ramificazioni. I cladodi assicurano la fotosintesi clorofilliana. Sono ricoperti da una cuticola cerosa che limita la traspirazione e rappresenta una barriera contro i predatori. I cladodi basali, intorno al quarto anno di crescita, vanno incontro a lignificazione dando vita ad un vero e proprio tronco. Le vere foglie hanno una forma conica e sono lunghe appena qualche millimetro. Appaiono sui cladodi giovani e sono transitorie. Alla base delle foglie si trovano le areole (piccola zona circolare, con confini ben delineati, che si differenzia dai tessuti circostanti per una diversa colorazione), circa 150 per cladode, che sono delle ascelle modificate tipiche delle Cactaceae. Per ascelle intendiamo la porzione costituita dall'angolo fra un ramo o un picciolo e il fusto dal quale nasce. Il tessuto melismatico dell'areola, responsabile della crescita della pianta, si può differenziare, secondo i casi, in spine e glochidi. Le spine propriamente dette sono biancastre, solidamente impiantate, lunghe da 1 a 2 cm. I glochidi sono invece sottili spine lunghe alcuni millimetri, di colore brunastro, che si staccano facilmente dalla pianta al contatto, ma essendo muniti di minuscole scaglie a forma di uncino, si impiantano solidamente nella cute e sono molto difficili da estrarre, in quanto si rompono facilmente quando si cerca di toglierle. Da notare che anche il ricettacolo fiorale, e dunque il frutto, è coperto da areole da cui si possono differenziare sia nuovi fiori che radici.
La radice è superficiale, non supera in genere i 30 cm di profondità nel suolo, ma di contro è molto esteso. I fiori sono a ovario infero e uniloculare, dai petali ben visibili e di colore giallo-arancio. I fiori nascono generalmente sui cladodi di oltre un anno di vita, più spesso sulle areole situate sulla sommità del cladode o sulla superficie più esposta al sole. All'inizio, per ogni areola, si sviluppa un unico fiore. I fiori giovani portano delle foglie temporanee, caratteristiche della specie.
Un cladode fertile può portare sino a una trentina di fiori, ma questo numero varia considerevolmente in base alla posizione che il cladode occupa sulla pianta, alla sua esposizione e anche in base alle condizioni di nutrizione della pianta.
Il frutto è una bacca carnosa, uniloculare, con numerosi semi (polispermica), il cui peso può variare da 150 a 400 g. Il colore è differente a seconda delle varietà: giallo-arancione nella varietà sulfarina, rosso porpora nella varietà sanguigna e bianco nella muscaredda. La forma è anch'essa molto variabile, non solo secondo le varietà ma anche in rapporto all'epoca di formazione: i primi frutti sono tondeggianti, quelli più tardivi hanno una forma allungata e peduncolata. Ogni frutto contiene un gran numero di semi, nell'ordine di 300 per un frutto di 160 g.
Usi alimentari
Il fico d’India ha un notevole valore nutrizionale essendo ricco di minerali, soprattutto calcio, fosforo e di vitamina C. La risorsa alimentare più pregiata è rappresentata dai frutti, chiamati fichi d'India, che oltre ad essere consumati freschi, possono essere utilizzati per la produzione di succhi, liquori, gelatine, marmellate, dolcificanti ed altro.
Anche le pale, possono essere mangiate fresche, in salamoia, sottoaceto, canditi, sotto forma di confettura. Vengono utilizzate anche come foraggio per gli animali.
Famose e molteplici anche le proprietà terapeutiche del fico d’India: diuretico, cicatrizzante, buono contro il diabete, toccasana contro lo scorbuto, tagliato a fette e disposto a colare, il succo del frutto con l’aggiunta di zucchero è efficace per la cura della tossi catarrali.
Dalle antiche ricette siciliane si è ereditato l’uso dell’infuso dei fiori di ficodindia, che facilita la diuresi, l’infiltrazione renale, ed unito alla malva viene utilizzato per curare le infiammazioni.
Anche le pale, spaccate ed infornate, vengono usate per curare angine, tonsilliti, febbri malariche e come cataplasmi per lussazioni, slogature e contusioni.
Se consumato in quantità eccessive può causare occlusione intestinale meccanica dovuta alla formazione di boli di semi nell'intestino crasso. Pertanto questo frutto va mangiato in quantità moderata e accompagnato da pane.
In Sicilia i fichi d'india sono inseriti tra i Prodotti agroalimentari tradizionali siciliani riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, su proposta della Regione Siciliana.

Anna Squatrito - Copyrught 2010 - E' vietato l'uso totale o parziale del testo


martedì 28 giugno 2011

La Pasticceria Siciliana

Le sfince di S. Giuseppe

La frittella viene preparata con un impasto liquido e fritta in abbondante olio bollente; durante la cottura si gonfia, prendendo la classica forma dorata e soffice.

Nella pasticceria siciliana la classica frittella è stata trasformata in uno squisito dolce, preparato tradizionalmente per la festa di S. Giuseppe: idea delle capaci suore del Monastero delle Stimmate, a Palermo, la cui ricetta è stata poi tramandata ai pasticcieri della città.

Le Sfince di S. Giuseppe (sfingi ri S. Giuseppe) hanno forma un po’ più irregolare rispetto alle classiche frittelle, e sono riempite di crema di ricotta. Decorate all’esterno con un leggero strato di crema, pistacchio tritato e frutta candita.

L’origine del nome di questo dolce segue diverse correnti di pensiero: si pensa derivi dal latino “spongia” (spugna) o dal soprannome dato dagli arabi “sfang”, che le preparavano rivestendole semplicemente di miele o di zucchero.

Puoi acquistare le sfince di S. Giuseppe contattare: Sorsi & Sapori di A. Squatrito - mail: sorsiesapori@libero.it - Cell. 3319087074

mercoledì 22 giugno 2011

Il Gelo di Melone


L’anguria è un frutto dalla polpa rossa e dolce: ha forma sferica o leggermente allungata, notevoli dimensioni, una corteccia verde con striature verde scuro e venne importato dall’Africa.


E’ facile trovarle, a Palermo, da Giugno fino a Settembre, accatastate in pile, accanto ad una tavola con tovaglietta a scacchi rossi, pronte per essere servite dal “mulunaru”, ovvero il venditore di meloni, che alla richiesta degli avventori taglia subito delle grosse fette. Il venditore prova se il melone è maturo in base al rumore ottenuto dando uno schiaffo alla corteccia: dopo di che, se soddisfatto dalla prova, lo taglia nel senso della lunghezza, in modo da trarne delle fette lunghe. La sensazione di dolce e di fresco che si prova nell’assaggiare una fetta di anguria matura è davvero eccezionale.

Durante il Festino, la sera del 14 luglio, nella piazza Marina a Palermo è immancabile la presenza dei “mulunari” e dei meloni, che vengono avidamente consumati dai palermitani in festa e dai turisti di passaggio. Insieme ai "babbaluci" ed alle "stigghiole".
Altra occasione in cui l’anguria è protagonista è la festa dell’Assunta, nella notte del ferragosto. Ma durante tutta l'estate regna sulle tavole dei palermitani come fine pasto.

Tipico dolce palermitano preparato con la polpa dell’anguria è il Gelo di Mellone o “Gelu i Muluni”, una gelatina a base di anguria, che viene addensata dalla fecola e decorata con gocce di cioccolato (che rappresentano i semi del melone), pistacchio tritato e fiori di gelsomino, che conferiscono al Gelo un sapore inconfondibile. Questa ricetta, molto antica, sembra avere origine dagli albanesi, che vissero in Sicilia prima come contadini e poi come militari. C’è chi sostiene invece che per la presenza del gelsomino e del pistacchio la ricetta abbia origini arabe. Preparare il gelo di melone è molto semplice. Occorre un’anguria molto matura di circa 7 Kg, che va tagliata a fette per ricavarne la polpa. Questa, privata dei semi viene frullata e occorre misurare quanti litri di succo si sono ottenuti. Per ogni lt di succo occorrono 90 gr di amido e 150 gr di zucchero (da diminuire se la polpa è molto dolce), e il tutto va portato ad ebollizione fino a che non si raggiunge la densità desiderata (simile ad un budino). Non appena pronto attendere che si raffreddi ed aggiungere le gocce di cioccolato (circa 200 gr).
Sistemare in una zuppiera e decorare con pistacchio tritato e fiori di gelsomino (precedentemente lavati e asciugati). Lasciare in frigo possibilmente per un giorno intero.

I pasticcieri palermitani offrono agli avventori il gelo in coppette da gelato oppure in scodelle di terracotta.

Anna Squatrito - Copyright 2010

venerdì 17 giugno 2011

Storia del Cannolo palermitano

Il nome “Carnevale” deriva dal latino “carnerm levare”, ed è la festa che precede la Quaresima, periodo nel quale l’antica tradizione vieta di mangiare la carne. Per questo, nei giorni del Carnevale, che partono dal giovedì fino al martedì antecedente le Ceneri, tutto era concesso. Chiaramente da tutto questo non poteva essere esente la gastronomia, che veniva arricchita in special modo dalla carne di maiale e dai dolci.

Ricette tipiche erano la carne “capoliata”, che veniva tagliata a pezzetti e cucinata con salsa di pomodoro. Condita poi con ricotta veniva posta sopra le tagliatelle caserecce. Altro piatto tipico era la salsiccia, arrostita alla brace ed “annaffiata” da vino rosso.

Dolce del periodo di Carnevale erano i Cannoli, (Cannola) il cui nome deriva da canna, ovvero l’antico rubinetto degli abbeveratoi. Uno scherzo carnevalesco nato in un Monastero che si diffonde in tutte le pasticcerie, che faceva uscire da un “rubinetto” crema di ricotta anziché acqua.

Il cannolo è formato da una cialda esterna (scorza) preparata con farina, marsala, uovo, zucchero e cacao. La pasta viene spianata e tagliata a quadrati, e viene avvolta in piccole canne, che anticamente erano di legno o di latta. Oggi sono in acciaio. Fase successiva è poi la frittura, che deve prolungarsi fino alla doratura del biscotto.

Bisogna fare molta attenzione al momento di staccare la canna dalla scorza.

Le scorze vengono poi riempite con crema di ricotta, decorate con scorze di arancia e cosparse di zucchero a velo e granella di pistacchio. Variante del cannolo palermitano sono i “cannolicchi”, preparati con scorze dal diametro di un dito.

Famosi sono i Cannoli di Piana degli Albanesi, famosi per le dimensioni sicuramente maggiori degli altri preparati in tutta la Sicilia.
Anna Squatrito - Coopyright 2011- E' vietato l'utilizzo totale o parziale del testo

Storia della Cassata siciliana

Un antico proverbio palermitano recita: “"Tintu è cu nun mancia a cassata a matina ri Pasqua" ("Meschino chi non mangia cassata la mattina di Pasqua"). Non deve mai mancare, infatti, dal banchetto della festa. Questa torta, tramandata nei secoli come specialità araba a causa del suo nome, Quas’at, ovvero la casseruola di forma circolare cilindrica e svasata sotto, in un veniva e viene tutt’oggi preparata. Ingredienti di questo famosissimo dolce siciliano sono il pan di Spagna, la ricotta, la pasta reale, la frutta candita ed il cioccolato a pezzetti. Sfarzosa da vedere per le sue tonalità, per le decorazioni di frutta candita che risaltano sul bianco della glassa, per la sua forma che richiama il sole, simbolo della vita, e che la pone come dolce della festa di Resurrezione.

La versione estiva della Cassata siciliana viene chiamata dai palermitani Cassaruolata, perché preparata in un tegame a forma di cupola. Ingredienti di questo dolce sono il gelato alla crema, la panna, pezzi di pan di Spagna, frutta candita e cioccolato a pezzetti.

Secondo la leggenda la Cassata venne creata per la prima volta da un contadino arabo, che la preparò con formaggio fresco e canna da zucchero e la chiamò Quas’at proprio per il nome della casseruola dove l’aveva lavorata In seguito fu migliorata dai cuochi dell’Emiro, che ricoprirono con pasta di pane la tuma zuccherata con zucchero di canna e la infornarono. Con il trascorrere degli anni fu perfezionata nei Conventi (in special modo nel Convento delle Suore di S. Maria in Valverde), che sostituirono la ricotta alla tuma ed aggiunsero il pan di Spagna. Divenne così famosa da essere inserita nel vocabolario latino siciliano di Angelo Senisio, dove al vocabolo Cassata risponde la dicitura “cibo composto da pane e formaggio”.

La Cassata siciliana dei giorni nostri fu creata da un pasticciere, il Cavaliere Salvatore Gulì, la cui pasticceria era ubicata in Corso Vittorio Emanuele, nei pressi di Palazzo Belmonte. Famosa era questa pasticceria per la creazione della “zuccata” (che un tempo veniva preparata dalle suore della Badia del Cancelliere di Palermo), che il pasticciere utilizzò per decorare la Cassata siciliana. La torta, così decorata, fu esposta per la prima volta ad una esposizione di Vienna, nel 1873.

Preparare una Cassata non è semplice: occorre foderare di Pan di Spagna il fondo della casseruola e foderare i bordi laterali con pezzetti di pan di Spagna e pasta reale verde in eguale misura. Riempire il tutto con crema di ricotta, preparata in precedenza. Chiudere poi con un altro disco di pan di Spagna e dopo averla tenuta in frigo per qualche ora occorre capovolgere la torta su un vassoio. Rivestire il tutto con la glassa di zucchero e fare solidificare. Quando lo zucchero è solido, decorare con la zuccata formando il classico disegno. Si utilizzano di solito mandarini, pere, e la zuccata a strisce. Piccole golosità sono “ i cassateddi” o le cassatine, formate da un cerchietto di pasta reale ripieno di crema di ricotta e ricoperte di glassa di zucchero.
Anna Squatrito - Copyright -  E' vietato l'utilizzo totale o parziale del testo

martedì 10 maggio 2011

Il gelato palermitano

Viene dato ai palermitani il merito dell’invenzione del gelato. Basta sapere che fu un gelataio di Palermo a vendere per primo, nel suo Caffè di Parigi, il gelo di caffè – nato dall’unione del sorbetto con il caffè palermitano - e che diede poi l’imput alla diffusione del gelato in Francia.


Il gelato è considerato eredità della dominazione araba. Questi, infatti, usavano bere nelle calde giornate estive una bevanda gelata con la neve (trovata alle pèndici di alte vette palermitane) e preparata con zucchero di canna, latte o acqua, essenza di frutta, vaniglia e cannella: lo “Sciarbat”, sorbire, da cui deriva l’attuale Sorbetto.

La neve veniva conservata nelle Niviere, buche create nel terreno, in luoghi di alta montagna, dove veniva posta la neve e ricoperta poi di paglia. Veniva trasportata in città in delle ceste, rivestite di paglia e sale marino, e qui veniva conservata nelle cantine. Uno dei sorbetti più famosi, che i pasticcieri palermitani hanno gelosamente conservato, era quello preparato con la spremuta di gelsomino e l’aggiunta di dolcificante (di solito lo zucchero di canna).

La neve veniva regolarmente acquistata, in special modo dai nobili, che usavano consumare il sorbetto durante i loro pasti. A maggiore richiesta erano i sorbetti cui venivano aggiunti succo di arancia o di limone.

Il gelato che noi conosciamo nacque quando fu inventata a Firenze il metodo per gelare a temperature che andavano sotto lo zero (siamo più o meno nel 1500).

Il gelato a Palermo veniva consumato dai nobili anche durante le “passeggiate” alla Marina: specialità di allora (ma anche di oggi) erano il gelato alla cassata, all’anguria, al gelsomino, alla scorzonera e cannella, al limone. Il tutto servito in eleganti coppe.

Fu nei primi anni del Novecento che venne inventato il cono di cialda: l’invenzione nacque da un piccolo incidente di un gelataio palermitano che, trovandosi in una esposizione ed avendo esaurito le coppe per servire il gelato, utilizzò dei fogli piegandoli a mo’ di cono. Pensò poi di realizzarli con il biscotto di cialda.

Nacquero quindi i primi gelatai ambulanti, (U gelataru) che con il loro carrettino di legno, decorato con figure di paladini e dentro il quale vi erano pozzetti di gelato di diversi gusti, giravano per i vecchi quartieri della città, preannunziando il loro arrivo con una caratteristica trombetta: e così anche la gente del popolo poteva gustare il prelibato dolce.

A parte che nei coni di cialda, i gelatai vendevano i gelati nei Canestrini (l’attuale coppetta) o nella “Scialotta”, un biscotto imbottito e formato da due strati con il gelato al centro (simile all’attuale Cucciolone). La brioche era una forma di lusso che non tutti potevano concedersi.

Il carretto decorato del “gelataru” oggi non esiste più: al suo posto abbiamo i lambrettini in acciaio, i tantissimi bar, o i chioschi nelle zone turistiche della città. Ma continua ad esistere il gelato artigianale siciliano, corposo e morbido, prodotto con frutta di stagione e senza l’uso di conservanti. E come allora viene servito in eleganti coppe, nei coni, o nelle brioche.

Sorsi & Sapori vi dà la possibilità di gustare il gelato palermitano in tutta la sua gamma: mettendo a vostra disposizione tutta la serie di paste tradizionali e alla frutta per la preparazione. Sarà possibile preparare a casa vostra il gelato alla cassata, o al cannolo siciliano, o a pistacchio, e nei tanti gusti tradizionali. Per la preparazione di 1 Kg di gelato basta aggiungere a 100 gr di pasta la dose di 370gr di pasta neutra, 1 lt di latte,  250 gr di zucchero e gelare tutto nella vostra gelatiera. Se invece volete gustare la granita, potrete prepararla sempre con le stesse paste nella dose di gr 200, zucchero gr 100, acqua gr 700, neutro 1/2 cucchiaino.
Chiaramente possiamo spedirvi le brioches o i coni di cialda. Vi aspettiamo su SORSI & SAPORI - IL GELATO SICILIANO
Anna Squatrito

Storia e leggende dei dolci palermitani

Quasi tutti i dolci palermitani nascono dalle mani laboriose delle monache di clausura rinchiuse negli allora numerosi Conventi di Palermo.
Preparati nei monasteri, i dolci venivano ordinati – secondo la specialità del Convento – e venduti al pubblico attraverso l’apposita ruota incastrata nel muro. Era un modo, per le suore, di coprire le necessità  economiche del Monastero, e di contro si divertivano a  stuzzicare il palato dei palermitani golosi con dolci che inventavano di volta in volta, ricchi e fantasiosi,  tramandati dalle varie dominazioni (in special modo quella araba) che davano certezza di genuinità e non avevano un costo molto alto.
Ogni Monastero aveva la sua specialità, che con il tempo è stata tramandata ai bravissimi pasticcieri palermitani: e da qui nasce  la grande varietà dei classici dolci palermitani.
Non c’era e non c'è oggi, infatti,  festa religiosa o patronale che non venga coronata da un dolce  tradizionale.

Nel convento di Santa Maria di Monte Oliveto, detto della badia Nuova, nascono i CANNOLI SICILIANI  da uno scherzo carnevalesco che faceva uscire dal rubinetto (anticamente detto cannolo) crema di ricotta anziché acqua. Ingredienti principali di questo dolce sono la scorza fritta e la crema di ricotta. Sempre nel periodo carnevalesco, le suore di questo convento confezionavano le TESTE DI TURCO e le CASSATELLE , piccoli dolci ripieni di crema di ricotta e ricoperti di pasta reale e glassa di zucchero. Queste diventarono poi dolci rituali del periodo pasquale.
Nel periodo di Pasqua le suore preparavano per i bambini i PUPI CON L'UOVO, dolci di pasta frolla a forma di pupo, in cui veniva inserito l’uovo sodo che rappresentava la pancia, e poi ricoperto di piccoli confettini colorati.



Nel Monastero di Santa Elisabetta, oggi trasformato in Questura, le suore erano note in città per la rosticceria. Famose le RAVAZZATE, dolci fritti con ripieno di crema di ricotta. Per Natale, le suore preparavano i Nucatoli, dolce tipico palermitano a base di noci, e per S. Martino i famosi BISCOTTI DI S. MARTINO  (tradizione vuole che vengano gustati inzuppati nel vino moscato)


Nel Monastero dei Settangeli, alle spalle della Cattedrale (oggi non più esistente in quanto distrutto dai borboni) le suore preparavano le Mustazzola, un dolce a base di farina, zucchero, mandorle tritate e miele. Venivano a volte farciti con conserva di pistacchio, ed il questo caso prendevano il nome di “pantofoli” . Con un impasto simile furono creati poi i biscotti BISCOTTI OSSA DI MORTO , tipici per la festa dei Morti.

Nasce nel Monastero di Valverde la CASSATA SICILIANA  , tipico dolce di Pasqua, secondo un documento del 1575 del sinodo di Mazara. Dolce ormai famosissimo nella pasticceria siciliana, e composto da pan di spagna farcito di crema di ricotta e ricoperto di glassa di zucchero. Decorato poi con pasta reale verde e zuccata.

Dolce molto strano erano i “feddi di cancellieri”, dove per “fedde” in dialetto palermitano si intendono le natiche, ed in questo caso, del “Cancelliere”. Questi era il benefattore Matteo Ajello, Cancelliere di Guglielmo II, che fondò nel XII secolo un monastero benedettino, distrutto poi dalla seconda guerra mondiale. Le suore di tale istituto preparavano questo dolce di pasta di mandorle dalla forma bombata e farcito di marmellata di albicocche.


Le suore del convento della Martorana realizzarono con la pasta di mandorle i famosi FRUTTI DI MARTORANA , che venivano regalati  ai bambini nella commemorazione dei Defunti.

Specialità delle suore nel Monastero di Montevergine era la CUCUZZATA cucuzzata (zuccata) utilizzata poi per guarnire molti dolci, come la cassata. Tagliata a strisce sottili e lunghe, la cucuzzata veniva strasformata in capìddi d’ancilu (capelli d’angelo).

Dalla dominazione spagnola e nel Monastero benedettino dell’Origlione nascono le  IMPANATIGLIE  , dolcetti di pasta frolla ripieni di carne, molto diffusi oggi nel ragusano.

Nel monastero di Santa Caterina veniva preparato il “Biancomangiare”, una crema bianca e molto delicata a base di latte di mandorla e cannella, che di solito veniva dato ai bambini o agli ammalati. In questo convento venivano preparati anche dei dolci dedicati alla Santa, una sorta di “panini” composti da farina di mandorle, zucchero e albume di uovo. Farciti poi con conserva, mandorle e aroma di cannella.

Le monache del monastero della Pietà, l’attuale Galleria Regionale, preparavano il PAN DI SPAGNA .  Con lo stesso impasto venivano preparati anche i  SAVOIARDI, in onore dell'allora  Re d’Italia.

Nel monastero delle Stimmate, ove oggi si trova il Teatro Massimo, venivano preparate le “sfinci”, sia semplici che ripiene di panna. Oggi questi dolci vengono preparati per la festa di S. Giuseppe, imbottiti di crema di ricotta.
Il “riso nero”, riso bollito, insaporito con miele e cannella e cosparso di cioccolato, veniva preparato dalle suore del SS. Salvatore.


Nel Monastero della “Concezione” al Capo, venivano realizzati, in occasione del Festino di S. Rosalia i MOSCARDINI , biscotti croccanti aromatizzati alla cannella.

Nel giorno di S. Lucia, le suore del Conservatorio di S. Lucia preparavano la Cuccìa: un dolce preparato con frumento lessato, che veniva poi condito con crema di ricotta e canditi. A tale dolce è legata la tradizione di S. Lucia a Palermo che fa arrivare, il giorno della Santa e dopo un lungo periodo di carestia a Palermo, una nave carica di grano.
In tempo di Quaresima anche i dolci erano vietati, a parte la carne, anche latte, formaggi, uova, e grassi animali. Le suore inventarono dei biscotti privi di tutto questo, che furono chiamati QUARESIMALI . Biscotti croccanti a base di farina, zucchero e mandorle.
Tante altre specialità venivano preparate dai numerosi monasteri palermitani: SOSPIRI DI MONACA I TARALLI ,  le Iris.


Oggi i conventi a Palermo non esistono più: ma le buone suore hanno lasciato ai pasticcieri palermitani l’immensa eredità delle loro ricette..
Potete acquistare on line  tutte le specialità dolciarie palermitane presso SORSI & SAPORI - mail: cabosse@alice.it - Cell. 3319087074.
Spese di spedizione secondo tariffe postali .
Anna Squatrito
Copyright 2010 - E' vietato l'uso totale o parziale del testo.

giovedì 5 maggio 2011

Dolci e tradizioni del mese di Giugno: la chiave di S. Pietro

Anticamente, presso un rione del mandamento di Castellammare, abitavano pescatori e pescivendoli soprannominati SanPietrani perché devoti di San Pietro, e questo bastò a dare il nome al rione: San Pietro, appunto.
Contrariamente a quanto normalmente avviene, il Santo in quel rione non aveva, né ebbe mai, una chiesa a lui dedicata, che suscitasse nel popolo, almeno, il fervore della fede.
Il 29 giugno, bucolicamente, si festeggiava il principe degli apostoli, Pietro; la sera della vigilia e per tutta la notte il divertimento era la prerogativa popolare, a base di luminarie, vino, "tiani ri babbaluci" (pietanza a base di lumache) a picchi pacchi, sbornie e "sciarri" (zuffe).
La festa ha, da sempre, avuto un carattere di esclusivo divertimento e di "manciunaria" (festini culinari).
Tradizionalmente in questa occasione, i "tavulieddi" organizzavano ogni ben di Dio e ai ragazzi venivano regalati dei caratteristici biscotti a forma di chiave.
Nonostante il carattere bucolico dei festeggiamenti, questo simbolo riconosceva in San Pietro l’autorità custode delle chiavi del Paradiso.
Questi biscotti, che comunemente i palermitani chiamano "chiavi ri San Pietru" , sono confezionati con pasta mielata.
Una volta preparata la pasta e distesa su un ripiano di marmo, vengono ritagliate le chiavi, con un apposito stampo; dopo l'infornata vengono spennellate con del miele e poi spolverate con piccole scaglie di zucchero colorato richiamante i colori del tricolore italiano.
Era consuetudine che tutti i fidanzati, nel giorno di San Pietro, non venissero meno ad un dovere di galateo amoroso, presentandosi all'amata con una bella "chiave" per aprire il suo cuore.
Chiavi ovviamente più ricche delle precedenti, preparate con maggior maestria dal pasticcere che le elaborava ulteriormente, utilizzando il più morbido pan di Spagna e rivestendole di panna e frutta sciroppata.
Chiavi di color rosso, infine, venivano dipinte sugli usci delle case dei sanpietrani.
Abbandonato il rione, distrutto dai bombardamenti del conflitto mondiale, la festa non venne più celebrata.
Rimase invece la consuetudine di preparare i biscotti che ancora oggi, confezionati in buste di cellophane chiuse da un nastrino rosso, sono venduti nelle migliori pasticcerie.
Puoi trovare le Chiavi di S. Pietro presso Sorsi & Sapori - Cell. 3319087074 - mail: sorsiesapori@libero.it

mercoledì 4 maggio 2011

Storia e tradizioni della pasticceria siciliana

Tre sono le fonti a cui si rifà la cucina siciliana in fatto di dolci: la prima è l'ambiente contadino, dove spettava alle donne nell'approssimarsi di ogni festa religiosa e familiare, preparare i dolci previsti per tali ricorrenze. La seconda fonte è legata ai monasteri, dove le monache di clausura preparavano, inventandoli di volta in volta, dolci ricchi e fantasiosi, che si tramandano fino ad oggi, esclusivamente entro le mura dei conventi. La terza fonte è, infine, quella di più recente acquisizione e riguarda la raffinata pasticceria importata in Sicilia dai valenti pasticcieri svizzeri, che dall'inizio del secolo si trasferirono nell'isola. Infatti, i dolci siciliani più conosciuti sono proprio quelli appartenenti alla pasticceria svizzero-siciliana, che si trova in tutte le principali città d'Italia. Fra le molte dominazioni che si sono succedute nell'isola, è sicuramente quella araba che ha impresso di più la propria impronta, perhcè ha introdotto alcuni elementi, quali il pistacchio, la cannella, lo zucchero, la pasta di mandorle, la granita, di cui si fa largo uso nella preparazione di molti dolci siciliani

Ma è attraverso la creatività che la pasticceria siciliana tradizionale si rivela ricca e variata, anche quando impiega ingredienti semplici e poveri: la ciaurrina, un antico dolce tradizionale, ha come unico ingrediente il miele.

Ogni provincia della Sicilia conserva la propria tradizione in fatto di dolci, così come per ogni festa popolare, religiosa e familiare. La Pasqua e la Commemorazione dei Defunti sono le festività più celebrate dell'isola. La settimana santa, tanto sentita in tutta la Sicilia, diventa anchel'occasione per preparare una varietà di dolci e pani rituali, legati al significato religioso della Pasqua, elaborati con gli stessi usi che fanno parte della tradizione agropastorale, presente non solo nella storia della Sicilia ma in quella dei popoli mediterranei. I pani rituali, preparati a base di farina, uova, zucchero, pasta reale e ricotta, sono vere e proprie specialità a cui vengono date forme diverse in base ai riferimenti simbolici religiosi. Un dolce di origine araba, a base di ricotta e pasta reale decorata con frutta candita, la cassata, è un vero e proprio capolavoro di bontà e bellezza, gustoso come nessun altro, diventato nel tempo un dolce pasquale, anche se oggi la si trova tutto l'anno. Altri dolci tipici del periodo della Pasqua sono le pecorelle di pasta reale e le cassateddi, diffuse nel ragusano.

Per la commemorazione dei defunti, che a Palermo assume un significato di festa che coinvolge soprattutto i bambini, i quali ricevono per quel giorno giocattoli e dolciumi, vengono preparati i famosi "pupi di zucchero", che raffigurano gli antichi paladini e cavalieri, e la frutta di pasta reale, denominata Martorana, dall'omonimo convento palermitano dove le monache di clausura le preparavano. Oggi è usuale vedere in bella mostra, nelle vetrine delle pasticcerie, vassoi con la frutta martorana, modellata da abili pasticcieri.

Alcuni dolci vengono preparati soltanto in determinati periodi dell'anno o per determinate festività patronali. Il 13 dicembre a Palermo è tradizione diffusa, soprattutto tra i palermitani devoti a S. Lucia, non mangiare durante la giornata pane e pasta ma la cuccìa, un dolce a base di grano bollito e ricotta. Per la festività di S. Pietro (29 giugno) vengono preparati dei biscotti giganti a forma di chiave, e per S. Martino (11 novembre) dei biscotti a forma di pagnottella, ripieni anche di crema di ricotta. Per S. Giuseppe (19 marzo), festeggiato in tutta l'Isola, i dolci tipici sono le sfinci, che a seconda della città o paese in cui viene festeggiato, vengono preparate in modo differente. A Natale, i dolci più diffusi sono il buccellato, una grossa ciambella ripiena di frutta secca e candita, i nucatoli, i mustazzoli, la petramennula (o torrone).

Un discorso a parte meritano i gelati e i sorbetti, nei gusti più svariati, così gli spongati, gli schiumoni, le cassate e le torte gelate, veri e propri trionfi di gusto e sapore, che fanno parte di una delle più rinomate tradizioni dolciarie. Durante la stagione estiva, è abitudine diffusa fin dal mattino a colazione e durante la giornata, consumare la granita, con o senza panna, accompagnata dalla brioche. La granita, dolce di origine araba che deriva dal sorbetto, viene preparata nei gusti alla frutta, caffè, cioccolato, latte di mandorla e gelsomini. Nei secoli scorsi, la granita veniva servita nei grandi banchetti dei nobili, tra una pietanza e l'altra, per facilitare l'ingestione di piatti più elaborati, e tale abitudine è rimasta anche oggi nei pranzi più importanti

Maria Adele Di Leo



giovedì 21 aprile 2011

Fiere, feste e dolci nel mese di maggio

Cu ha denari lu misi di maju, nn'havi tuttu l'annu. (Chi ha soldi il mese di maggio, ce li ha tutto l'anno) . E' questo un proverbio che probabilmente oggi molti non riescono più a comprendere a meno che non lo inquadrino nell'antica economia agricola dell'Isola: il contadino che non ha dovuto dar fondo ai suoi risparmi sino a maggio, non avrà nulla da temere per il resto dell'anno, in quanto la terra è già pronta a dare i suoi frutti.
Un'ancestrale saggezza consigliava anche di fare in questo mese provvista di legna e formaggio, essendo la prima più a buon mercato a causa della rimonda che la rendeva più abbondante, ed il secondo prodotto con il latte di migliore qualità: Misi di maggiu, mèttiti in casa ligna e formaggiu. Un suggerimento da tenere ancora presente da parte di coloro che temono la crisi energetica e di quanti vanno alla ricerca dei cibi genuini.
A Palermo, maggio era il mese della fiera di S. Cristina. Come riferisce il Cacioppo (1832) "il luogo destinato era la piazza del Duomo. Ivi si costruivano casette di legno, e servivano da botteghe a mercanti, onde spacciarvi le merci. Queste officine venivano con simmetria disposte, ed in fondo erano dominate da una gran baracca elegantemente addobbata ed adorna da una gran quantità di premi, dove per via di polizze benefiziate o bianche si praticava una specie di lotto. La fiera durava 15 giorni, cioè dalla prima domenica di maggio sino alla terza, e nella sera porgeva occasione di grato passeggio al pubblico per la illuminazione e la musica che vi si godeva"
Tra le feste religiose, la più importante era quella dell'Ascensione.
La notte precedente - che la gente del popolo suole chiamare la notti di la Scèusa - prepara una delle tante feste cristiane che hanno assorbito credenze e riti pagani che si perdono nel tempo.
E' una notte magica, nel corso della quale vengono guarite le malattie e ribelli ad ogni cura. Il momento più opportuno è la mezzanotte in punto: a quell'ora i malati di gozzo - se vogliono guarire rapidamente - addentino la corteccia del pesco in modo da trasferire all'albero il "cattivo sangue"; coloro che soffrono di malattie alla pelle corrano al mare e vi si immergano in un bagno purificatore.
Secondo la tradizione, l'acqua del mare, a mezzanotte, da salata si trasformerebbe in dolce. Un tempo, le donne del popolo, prima di andare a letto, mettevano al balcone un recipiente pieno d'acqua con su sparse foglie di rose insieme ad un orciolo, anch'esso ricolmo. L'indomani mattina tutta quell'acqua era benedetta e serviva sia per bere che per lavarsi la faccia: in tal modo - veniva assicurato - si restava benedetti per tutto l'anno.
Ma il bagno purificatore lungo la riva del mare non era soltanto miracoloso per gli uomini, ma soprattutto per gli armenti, con il preciso intento di preservare gli animali da possibili malattie o per guarirli da quelle di cui erano affetti. E sino alla fine del secolo scorso si poteva assistere a Palermo ad uno spettacolo veramente insolito: i pastori conducevano i loro armenti al mare, per farveli bagnare, per invocare sopra gli animali la benedizione del Cielo, affinchè volgesse il suo sguardo benigno alle candite ricotte ed ai biondi formaggi.
Le mandrie scendevano da Porta Nuova lungo l'antico Cassaro, ed il continuo tintinnìo delle campane sospese ai caratteristici collari, spandendosi come un'armonia in festa, creava nel cuore della vecchia città un'atmosfera da egloga virginiana. Andavano verso il mare gli armenti di Monreale, del Parco, del Monte Pellegrino, sbucando da ogni strada: la città echeggiava di belati degli animali  e del suono del numero infinito di campane che essi scuotevano. Suoni di flauto, di strumenti a corda, voci di pecorai, di pastori, di mulattieri si fondevano in un brusìo sempre crescente che si sarebbe potuto scambiare per l'urlo del mare.
E lungo la spiaggia della Marina i pastori conducevano le loro mandrie. E qui, un prete in cotta e stola, con gesto maestoso e biblico, benediceva gli animali che i pastori poi spingevano verso il mare dove le acque erano basse. PIù lontano, in un tratto di riva buia e deserta, si vedevano muovere ombre bianche: erano gli storpi, i guerci, poveri ammalati che, dopo essersi spogliati in fretta, si tuffavano in acqua. Ma i riti della notti di la Scèusa sono ormai da tempo scomparsi.
Una curiosa tradizione si collegava al culto di Santa Restituta, di cui si conservavano alcune reliquie nel monastero di S. Chiara. Questa santa, bruna in viso, venne martirizzata a soli 13 anni. Fino al 1911, le educande del Monastero celebravano in suo onore il 17 maggio una festa alquanto comica che incominciava con una processione a pedi torti (piedi storti) e finiva in una solenne refezione a tavola imbandita soprattutto da dolcetti di pasta di mandorle, tipica produzione delle suore.
Il Pitrè dice che la processione era composta dalle fanciulle le quali, da un lato posto del monastero, si recavano in pellegrinaggio fino al coro storcendo, per penitenza, i piedi indietro. La scena era strana parecchio e si prestava ad una prolungata ilarità malcelata delle suore professe.
Nei primi decenni dopo il compimento dell'Unità d'Italia, a Palermo, maggio era considerato il mese garibaldino. I superstiti dei Picciotti si recavano con la camicia rossa in pellegrinaggio al Ponte dell'Ammiraglio e sull'altura di Gibilrossa. Inni e discorsi celebrativi riempivano la giornata del 27 del mese. In onore del biondo eroe dei due mondi i pasticcieri palermitani inventarono il Gelato di Campagnache,  dal punto di vista organolettico, assomiglia molto al gelato ma non lo è poiché il suo ingrediente principale è lo zucchero, Ha però la caratteristica di sciogliersi facilmente in bocca. Come il gelato, appunto. Da qui, il nome.
Sorta di torrone tenero d’origine araba, oltre allo zucchero che ne è l’ingrediente principale in assoluto e che veniva importato, ricavato dalla cannamele, altri ingredienti “essenziali” sono: il pistacchio, largamente impiegato, oltre che per il gusto, per il suo verde scintillante che risalta autorevolmente fra gli altri due colori principali, il bianco e il rosso, ricavati da coloranti vegetali.
I tre colori riproducono infatti  il tricolore italiano. Le mandorle, la cannella e la frutta candita, frutti peculiari della terra di Sicilia, vennero aggiunti a gratificazione della cultura magrebina.

lunedì 11 aprile 2011

Questo pazzo mese di Marzo e la festa di S. Giuseppe

Marzo è un mese che non gode di buona fama, probabilmente per le sue stramberie meteorologiche. E di precedenti, poco raccomandabili deve averne molti, se un canto popolare ci mette in guardia con i seguenti versi "E trasi marzu lu svinturatu/a cui cci scippa e metti la saluti/ma si pri sorti ti trovi malatu/di novu ti lu fai tabbutu" (Ed entra Marzo lo sventurato/che toglie e dà la salute/ma se per caso ti trova malato/di nuovo ti fa la tomba). Se in questo mese qualcuno se la scampa, la gente suol dire: " ora nun mori cchiù" (ora non muore più) e ricordiamo, a tal proposito, il famoso "Zu Martinu" di piazza Ballarò, che avendo perduto nel corso della sua vita moglie e figli in marzo, alla mezzanotte passata del 31, si affacciava al balcone di casa sua, compiva coram populo una usuale funzione fisiologica, esclamando le fatidiche parole "..e t'aiu pisciatu Marzu!" (e ti ho pisciato Marzo)
Contro questo povero mese chi più ne ha più ne mette. Anche se la Pasqua cade in Aprile, c'è qualcuno che dice "Marzu è tantu tristu/ca detti morti a Cristu" (Marzo è tanto cattivo che ha fatto morire Gesù)
Qualche altro aggiunge che marzo è malvagio anche sotto aspetti diversi e impietosamente ricorda il terremoto del 1823 avvenuto, con gravi danni, proprio il giorno 5 di questo mese.
Dopo averne dette di cotte e di crude su Marzo tanto diffamato, vediamo ora cosa ci riserva di buono, almeno secondo le tradizioni.
Un tempo, come riferisce il Cacioppo, nel giorno di S. Giuseppe (19 Marzo) si usava "vestire alla foggia di quel patriarca alcuni vecchi poveri, che hanno il capo canuto, e la barba lunga e bianca. Si dà loro un mazzetto di fiori, e costoro girano la città eccitando la compiacenza del basso popolo. Talora si unisce una donzella vestita da Maria ed un ragazzo che fa Gesù; tutti e tre insieme percorrono i quartieri più popolati, e quindi a mezzogiorno si fa loro trovare in qualche strada una piccola mensa a bella posta preparata, ove pranzano pubblicamente; e questo chiamasi il pranzo di Gesù, Giuseppe e Maria".
Un uso questo ormai del tutto scomparso, mentre invece resiste ancora la tradizione delle "vampe" che vengono accese alla vigilia nelle piazze e negli slarghi dei quartieri del centro storico.
Dolce tipico di questa tradizione è la Sfincia di S. Giuseppe: (dal latino spongia, "spugna" oppure dall'arabo "sfang" col quale si indica una frittella di pasta addolcita con il miele), è un dolce fritto, diffuso nella Sicilia occidentale.  La ricetta tipica prevede la realizzazione di una pastella di farina, acqua e uova, che viene fritta in olio bollente o in strutto, poi ricoperta con zucchero o, più comunemente, con una crema di ricotta di pecora con pezzetti di cioccolato, e guarnita da scorza d'arancia e pezzetti di pistacchio.

Puoi acquistare la Sfincia di S. Giuseppe presso Sorsi & Sapori - Cell. 3319087074  - mail: cabosse@alice.it - sorsiesapori@libero.it


Il Torrone Siciliano o Giuggiolena

E' impossibile enumerare tutte le varietà dei torroni siciliani: alle mandorle, ai pistacchi, alle arachidi, misti di zucchero e miele, al cioccolato, ecc.
Sono diversi anche per la forma: tipici quelli a "mattuneddi", mattonelle, o "nè casciti", a cassetta, oppure a forma di cuore. A Licata, un tempo, si confezionava un torrone con i ceci tostati cotti nel miele, che prendeva il nome di "ciciràta"
Uno dei torroni siciliani più prelibati è la "giuggiolèna" o "cubbaita", profumato al sesamo (miele, semi di sesamo, zucchero, mandorle con la pelle).
Il termine "giuggiolena" deriva dall'arabo "giolgiolan" e nella Sicilia orientale indica non solo il torroncino ma anche i semi di sesamo: nella Sicilia occidentale indica solo i semi perchè il torrone è chiamato "cubbàita", anch'essa parola di origine araba (qubbaita). Furono infatti gli Arabi che introdussero nell'isola la preparazione di questo dolce.
Secondo quanto sostiene Eraclide Siracusano, durante le feste in onore della dea Cerere, nella Sicilia preromana si preparava un dolce quasi simile alla cubbàita: il rnylloi. Ed oggi non c'è festa popolare in Sicilia dove mancano i "turrunari" ed il profumo delle mandorle tostate e zucchero caldo.
Acquista il Torrone siciliano presso: Sorsi & Sapori - http://sorsiesapori.xoom.it/ - Cell. 3319087074 - mail: cabosse@alice.itsorsiesapori@libero.it


venerdì 8 aprile 2011

La Leggenda dei Sospiri di Monaca

Se in molti oggi trascurano la storia delle paste, difficile è non accorgersi della squisitezza dei dolci, ben presentata dalla sinuosità delle forme e dai colori naturali. Così li vollero Maria “la Cavallara” e Lorenzo il boscaiolo per comunicarsi il loro sentimento d’amore e puntando tutto su di un pasticcere e la sapienza della sua arte.

Erano i tempi della società agricola, vissuta in stretto rapporto con gli affetti e la terra, il mare e il lavoro. Erano tempi in cui il coronamento di un sogno era affidato alle buone parole di un amico e a pizzini d’amore, all’aprirsi e al chiudersi delle finestre o, come in questo caso, ai dolci doni, appositamente ideati.

Le colline che circondano il Borgo ospitavano molti boscaioli locali. I sentimenti non rimanevano a casa e succedeva così che nascesse l’amicizia e l’antipatia, la voglia di partire o di sistemarsi con una ragazza dalla bellezza abbagliante.

La giovane Maria si trovava sull’uscio di casa quando s’imbatté in un fagotto contente un dolce di pan di spagna e zucchero fine, a forma di cannolo siciliano, ripieno di una squisita crema al cacao, leggera, gustosa.

In lontananza un carretto riprendeva il suo viaggio. Maria non conosceva ancora il nome di quel giovane generoso che continuava ad ammirarla con lo sguardo. Più tardi verrà a conoscenza che si trattava di Lorenzo. Maria, sapeva che non sarebbe stato facile rispondere a quel gesto d’amore. C’erano regole da rispettare e un’immagine da tutelare a frenare il pathos dei giovani innamorati. Dopo alcuni giorni, la storia ci riporta a quel pasticcere del Dito d’Apostolo che diventa l’artefice di indimenticabili momenti di piacere. La donna fa richiesta di una piccola torta rotonda, bianca, con al centro una ciliegina; una pasta che, chiede Maria, avrebbe dovuto far sospirare anche una monaca.

“Il dolce me lo manderete con un boscaiolo che lavora da quelle parte”, dice Maria, “…e direte che sono Maria la Cavallara”.

Lorenzo portò a Maria il Sospiro di Monaca e lei non mancò di ringraziarlo per il Dito di Apostolo. Antonio preparò per tante domeniche ancora un Sospiro di Monaca e un Dito di apostolo che Lorenzo portava, in un unico fagotto, all’alba a casa di Maria.

I Sospiri di Monaca e i Diti di Apostolo ebbero nome da quell’arguto dolciere ispirato, si fa per dire e da una prestante contadina.

É sicuro che i Diti di Apostolo ed i Sospiri di Monaca, per chi li riceveva e per chi li donava, portavano una complicità allusiva, spesso significativa.

É un fatto che essi si trascinano, quasi per tradizione, questo alone di malizia tanto che, spesso, andando a comprarli dal dolciere, questi difficilmente rifugge da una domanda tendenziosa seppure discreta.

Acquista i Sospiri di Monaca presso: Sorsi e Sapori - Cell. 3319087074 - mail: cabosse@alice.it - sorsiesapori@libero.it - http://sorsiesapori.xoom.it/

 




martedì 5 aprile 2011

Il gelato di campagna: i dolci siciliani e l'Unità d'Italia


Nel periodo in cui si svolge a Palermo il tradizionale Festino, (14 e 15 Luglio) vengono consumati quintali di “babbaluci” (lumache condite con olio e aglio), e grosse quantità di “muluna” (anguria a fette), per quello che viene definito lo “schiticchio”(antipasto). Ma, come dessert o come passatempo nell’attesa di assistere ai fantasmagorici giochi d’artificio, si indugia a sgranocchiare “calia e simenza”, o si gusta il tradizionale "gelato di campagna" o “giardinetto". In realtà, dal punto di vista organolettico, assomiglia molto al gelato ma non lo è poiché il suo ingrediente principale è lo zucchero, che però ha la caratteristica di sciogliersi facilmente in bocca. Come il gelato, appunto. Da qui, il nome.

Sorta di torrone tenero d’origine araba, oltre allo zucchero che ne è l’ingrediente principale in assoluto e che veniva importato, ricavato dalla cannamele, altri ingredienti “essenziali” sono: il pistacchio, largamente impiegato, oltre che per il gusto, per il suo verde scintillante che risalta autorevolmente fra gli altri due colori principali, il bianco e il rosso, ricavati da coloranti vegetali.
I tre colori riproducono il tricolore italiano. Le mandorle, la cannella e la frutta candita, frutti peculiari della terra di Sicilia, vennero aggiunti a gratificazione della cultura magrebina. Manipolato, come spesso accadeva per i dolciumi, all’interno dei monasteri, si diffuse nel 1860 per acclamare l’arrivo di Garibaldi ed esaltare l’avvenuta annessione all’Italia. I palermitani, con il tricolore, ne furono validi testimoni, e da allora il gelato di campagna è sempre presente in tutte le feste popolari. E’ il pezzo forte di tutte le bancarelle dei “turrunara”. Ammicca dai ripiani tra le altre golosità e, ulteriore curiosità, può essere preparato in forma quadrata o a forma di mezzaluna; quest’ultima forma si fa risalire ad un simbolismo magico introdotto dalla cultura araba che venerava la natura ed in particolare la luna crescente. Per i palermitani questo dolce è il simbolo magnificatore di un’occasione quale la festa, il suo consumo scandisce la ricorrenza di calendario. In questo caso il gelato di campagna ci richiama il “Festino” con i suoi colori e sapori. Le preparazioni più recenti, sfuggendo alle rigide tradizioni, propongono prodotti identici dal punto di vista calorico, ma molto più elaborati esteticamente. Cambiano perciò le forme, i colori, gli ingredienti di contorno. Ma, nonostante il passare degli anni e le inevitabili “contaminazioni” (è successo anche al panettone), la tradizione resiste ad il gelato di campagna si colloca nel firmamento dei dolciumi come un classico dell’antica arte pasticciera palermitana. - Tratto da Palermoweb.com

Acquista il Gelato di Campagna presso: Sorsi & sapori - http://sorsiesapori.xoom.it/ - mail: cabosse@alice.it - sorsiesapori@libero.it
Cell. 3319087074





giovedì 24 marzo 2011

I riti pasquali della vecchia Palermo

Aprili, lu duci durmiri/nè livari, nè mettiri: un vecchio proverbio siciliano che, nel constatare come in questo mese sia dolce il dormire, consiglia agli incauti di non togliere nè aggiungere indumenti. Aprile non è pazzerellone come il mese che lo precede, ma può riservare qualche sorpresa.
La campagna è già tutta in fiore, e se un albero tarda, sarà meglio estirparlo: Arvulu chi d'aprili nun fa ciuri, mancu nni fa intra l'autri staciuni
Vive ancora la tradizione della domenica delle Palme, festeggiata con ramoscelli d'olivo e palme. Un tempo - come riferisce il Pitrè - non vi era fanciullo che ne andasse privo, sia che li ricevesse in dono, sia che li comprasse dai fiorai.
Si ripete annualmente la Fiera di Pasqua, che sorgeva una volta nella scomparsa piazza Castello e che, ormai da tempo, pianta le sue tende al Foro Italico.
Il Giovedì Santo, a dire del Cacioppo (1835) il Capo del Governo locale lavava i piedi a dodici poveri, vestiti alla guisa degli apostoli, e al dopo pranzo visitava in pompa alcune Chiese ove si ergevano i Santi Sepolcri. Dal mezzogiorno del giovedì sino a tutto il venerdì invece di campane si suonavano le tabelle, e non si andava nè in carrozza nè a cavallo per la Città, in segno di rispetto alle auguste cerimonie che celebrava la nostra Chiesa.
Sopravvivono ancora alcune processioni in occasione del Venerdì Santo.
Condita l'intera settimana santa delle ghiottonerie pasquali: la cassata, il pupo cull'ovu - una specie di pupattolo fatto di farina e tutto imbottito di uova sode - e la pecorella di pasta reale.
Ed infine la Domenica di Resurrezione. Ecco come ce la deschive Goethe, nel suo Viaggi in Italia (1786 - 1787) "L'esplosione di gioia per la Resurrezione del Signore si è fatta sentire fin dall'alba: i peterdi, le racchette, le bombe, i serpentelli, sparati davanti la porta delle Chiese, si contavano a carra, mentre i devoti affluivano per i battenti spalancati. Fra il suono delle campane e degli organi, le salmodie delle processioni e i cori dei preti che le precedevano, ce n'era abbastanza per frastornare gli orecchi di quanti non sono assuefatti ad un modo così fragoroso di adorare Dio"
Tratto da - Alla scoperta della tua città - di Rosario La Duca
Edizione Ristampe Siciliane

Acquista i Dolci tipici di Pasqua in Sicilia - Cassata siciliana, pecorella di pasta reale, il Pupo con l'uovo, i biscotti Quaresimali presso: Sorsi & Sapori - Cell. 3319087074 - mail: cabosse@alice.it - sorsiesapori@libero.it - http://sorsiesapori.xoom.it/

mercoledì 23 marzo 2011

Feste e tradizioni siciliane del buon tempo antico: la festa di S. Martino

Novembre in Sicilia non è soltanto il mese dei morti. Ce lo ricordano i proverbi legati alle pratiche agrarie "La prima a tutti li Santi e l'ultima a Sant'Andria", consiglia al contadino il tempo della semina, che dovrebbe cominciare il 1 Novembre e aver termine il giorno di S. Andrea (10 novembre).
Novembre ci riserva anche un'altra festa, che è poi quella dei beoni: S. Martino. A San Martinu ogni mostu è vinu, dice un antico proverbio; e quindi appare logico che questo santo sia stato elevato a protettore di coloro che, più o meno frequentemente, amano alzare il gomito. Un motto popolare dice: Cui si leva di vinu dici: viva Sammartinu. E nonostante che il leggendario dei santi ci dica che egli fu così astinente che, fondato un convento, visse colà con ottanta discepoli senza mai conoscere il vino, tutti i bevitori siciliani vi diranno che San Martino era "uno di loro"
Ma a Palermo tutte le occasioni, oltre che per bere, erano e sono buone anche per mangiare. Il giorno di San Martino, o per comodità la domenica successiva, non c'era un tempo tavola imbandita in cui non fosse presente il tradizionale tacchino. In mancanza, poteva costituire un buon surrogato la carne di maiale, come ci conferma il detto: Ad ogni porcu veni lu so' Martinu". Osservava Enrico Onufrio: "Anche a S. Martino, il dio delle battaglie, il popolo palermitano è devoto al suo solito, s'intende, vale a dire banchettando a maggior gloria del Santo. E' in tal giorno che si imbandiscono a tavola i più grassi tacchini, e codesta è un'abitudine così inveterata che tu non sai bene se la festa è del Santo Martino o del dio tacchino".
Questa festa ha anche il suo dolce caratteristico: "I viscotta di S. Martinu", che hanno la forma di un piccolo pane, la cui parte appariscente - come commenta il Pitrè - è alla rococò. Onufrio aggiunge che "per conservare le sacre tradizioni degli avi, cotesto biscotto bisogna inzupparlo nel moscatello. E crepi l'avarizia!"
Celebre in Sicilia, ma anche nel resto d'Italia, l'estate di San Martino, risultante un breve periodo in cui solitamente fa nel tempo e la temperatura si mantiene mite.
Molte delle usanze di cui abbiamo fatto cenno non sono ancora scomparse. Le vetrine delle dolcerie mettono tuttora in bella mostra biscotti di ogni foggia, riccamente decorati con zucchero filato e carte luccicanti. Forse le tavole saranno meno ricche di tacchini e maiali, con grande consolazione per loro.
Tratto da "Alla scoperta della tua città" di Rosario La Duca - Edizioni e Ristampe siciliane

Acquista i Biscotti di S. Martino presso Sorsi & Sapori - Cell. 3319087074 - mail: cabosse@alice.it - sorsiesapori@libero.it - http://sorsiesapori.xoom.it/

martedì 22 marzo 2011

Feste e tradizioni siciliane - Il 2 Novembre: Frutti di Martorana e Pupi ri zuccaru

Il 2 Novembre, giorno consacrato alla celebrazione dei defunti, per i fanciulli siciliani è la "festa dei morti". Una antica tradizione vuole che i genitori regalino loro dolci e giocattoli, dicendo che sono stati portati in dono dalle anime dei parenti morti. L'origine ed il significato di qeusta usanza si collega certamente ad antichi culti pagani ed al banchetto funebre un tempo comune a tutti i popoli indo-europei, di cui si ha ancora un ricordo nel consulu siciliano. E' stato esservato che il significato della strenna dei morti è duplice: offerta alimentare alle anime dei defunti e offerta simbolica nei dolci a forma umana, con raffigurazione delle anime dei defunti "in maniera che cibandosi di essi, è come se ci si cibasse dei trapassati stessi".
Di questi dolci, antropomorfi, sono celebri a Palermo le "pupe di zucchero", decorate con colori sgargianti e vivaci. I personaggi raffigurati sono vari: dragoni, paladini, bersaglieri, coppie di sposi, dame del settecento. Le pupe di zucchero o di pasta di miele, sono comuni in tutta la Sicilia. A Palermo, però, in occasione della festa dei morti, appare nelle vetrine dei negozi un altro dolce caratteristico, originariamente non collegato alla celebrazione dei defunti.
Si tratta dei caratteristici "frutti" di pasta di mandorle, o pasta reale, che comunemente vanno sotto il nome di "frutti di MArtorana" che, nati a Palermo, sono ormai diffusi anche nel resto della Sicilia, varcando lo stretto, sia pure come prodotto di importazione.
Nel Settecento, una delle curiosità della vita monastica era che ciascun monastero, quasi fosse un distintivo, aveva una Piatta, coè un manicaretto. A Palermo erano celebri le Feddi (fette) del Cancelliere, la conserva di scurzunera delle Montevergini, la Cucuzzata ed il Biancomangiare di Santa Caterina, il pane di Spagna della Pietà, le sfinci ammilate delle Stimmate, la caponata dei Sett'Angeli, le ravazzate con ricotta di Santa Elisabetta, e tanti altri dolciumi quali cannoli, cassate, ecc. che invano i pasticcieri della città tentavano di imitare. Il Monastero della Martorana era arcinoto per i suoi frutti di pasta di mandorle, che prendevano proprio il nome dall'edificio religioso. Le pie monache confezionavano frutta di pasta reale di ogni tipo, cercando di imitare alla perfezione quella naturale.
Una tradizione buole che in una circostanza imprecisata, le monache della Martorana abbiano manifatturato frutta di qualità diversa che si produce in varie stagioni e che l'abbiano appesa sugli alberi di un piccolo chiostro del loro monastero. I "frutti della Martorana" entrarono ben presto a far parte dei dolci dei morti, e dopo la soppressione delle Corporazioni religiose, avvenuta nel 1866, l'attività e la produzione dolciaria del monastero divenne patrimonio dei pasticcieri della città che, puntualmente, ogni anno, in occasione della celebrazione dei defunti, ne continuano ad adornare le loro vetrine.
Pupe di zucchero e frutti di Martorana scompariranno soltanto se un giorno verrà a cessare l'uso di fare le strenne ai fanciulli il 2 Novembre, e le anime sante, quelle dei parenti defunti, non torneranno più sulla terra a portare doni ai bambini
Soltanto quel giorno, i fanciulli siciliani si accorgeranno che i loro morti, in verità, sono "morti per sempre"
Tratto da Alla Scoperta della tua città di Rosario La Duca
Edizioni e Ristampe siciliane

Acquista i Dolci dei Morti - La frutta di martorana - La pupa di zucchero - il Misto siciliano - i biscotti Ossa di Morto presso:
Sorsi & Sapori  - Cell. 33190987074 - mail: cabosse@alice.it - sorsiesapori@libero.it - http://sorsiesapori.xoom.it/